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Capitolo 29: La malattia

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By Your Side
set 06, 2022
∙ A pagamento
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Capitolo 29: La malattia
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“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono 
Le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.”
(Eugenio Montale, Ho sceso dandoti il braccio…)

10.42. Giovedì. Fra una settimana è il suo compleanno e non ho ancora fatto il pacchetto. Devo fargli il pacchetto. Devo comprare la carta. Sono sicura non sospetta niente, della festa, della sorpresa. Sono sicura del suo sorriso quando vedrà gli occhi di tutti. Il suo sorriso meraviglioso. Sì, è quel suo sorriso a essere indimenticabile. Fasci di luce calda negli occhi. Il mio nord, il mio sud, laggiù da ovest fino all’estremo oriente. Non vedo l’ora stia meglio per tornare nel calmo oriente. Ascolteremo le campane dorate dei templi, compreremo tuniche colorate, guarderemo albe esotiche e animali sconosciuti. Saremo felici per un attimo ancora.
Paziente n. 202 atteso in stanza 5.
Paziente n. 202 atteso in stanza 5.
Appoggio di nuovo gli occhi sul depliant di carta plastificata bianca e verde che mi hanno dato all’ingresso. La Radiochirurgia mediante Gamma Knife è utile per intervenire su quelle lesioni profonde non raggiungibili mediante la chirurgia tradizionale. Il paziente viene lievemente sedato, gli viene applicato il casco stereotassico. Successivamente, il paziente viene sdraiato con il casco stereotassico fissato alla Gamma Knife. Il trattamento può durare da una a sei ore, a seconda delle esigenze del paziente e del bersaglio da irradiare.
Le sue esigenze sono di sei ore oggi e altre sei ore fra due settimane. Esigenze estreme. Ma i medici hanno detto che ce la farà perché è forte. Certo che ce la farà. Ce la faremo fino ai confini liberi della fine.
Me lo dico con il cuore ingabbiato che mi prega di uscire, di portarlo lontano da qui, verso l’estremo oriente. Non in questa sala d’attesa di ospedale che odora di vestiti bianchi stesi senza pieghe in una stanza chiusa. No, piccolo cuore, dobbiamo stare qui ancora un po’. Staremo qui finché la tempesta non passa. Non possiamo lasciare questa nave. Un veliero coraggioso. La vedi come è fiera e forte questa nave? Supereremo le onde e la tempesta, vedremo l’arcobaleno e poi ripartiremo. Ti porterò dove vuoi. Mi porterai tu dove più desideriamo. Lontano. Rinascite lontane.
C’è un senso di oblio oppresso dentro questa stanza di attese e speranze. Va e viene, come la nebbia di novembre. Quella nebbia che provoca piccole scosse nella pelle, infiltrandosi sotto i pesanti cappotti, e tu non vedi l’ora di tornare a casa. Fra poco ti porto a casa, Jacques.
Si apre la porta scorrevole automatica di vetro opaco e un’infermiera esce. È la stessa che gli ha applicato il casco poco fa.
Scusi, signorina, come sta andando?
Mi sorride. Ha un sorriso che sa di cioccolata calda nelle giornate d’inverno.
Ha iniziato da poco, ma sta andando tutto bene. L’hanno messo poco fa nel tubo.
Ma lo lasciate nel tubo per tutte e sei le ore? Come fa se deve andare in bagno?
Penso che fra qualche ora gli faranno fare una piccola pausa e potrai salutarlo. Puoi andare a fare un giro, se vuoi, intanto. Sarà una lunga giornata anche per te. Da che ora sei in piedi?
Dalle 5.
Posso portarti un caffè o qualcosa?
Mi sono portata un libro, leggo quello. Grazie.
Apro il libro a pagina 361. Il segnalibro è una cartolina di Parigi comprata quest’estate in quel piccolo negozio del V° Arrondissement. È stata proprio una bella vacanza. Un sollievo. Persi per strade di luce. Mi ricordo bene quei giorni prima di partire: è tornato a casa con l’esito della tac in mano dentro una cartelletta di carta marrone. Ci sono dei piccoli segni in testa, cosa saranno Pan Pan? Non lo so, Jacques, ma ce lo diranno i medici fra qualche settimana; ora mettiamo la cartelletta di carta nel cassetto e pensiamo a questo bel viaggio che stiamo per fare, godiamoci i cieli, mangiamo tutti i pain au chocolat che vuoi e al ritorno ci penseremo. Lo sento ancora il suo bacio sulla testa nel nostro posto al tramonto. Il cuore lo sa. Ma magari il cuore si sbaglia, sono certa che queste cure lo faranno stare bene. Per molto tempo. Molti altri viaggi ci aspettano fuori di qua. Sì, il cuore sicuramente si sbaglia. Mi vuole portare lontano da qui, ma io voglio stare ancora qui ancora per molto. Per sempre.
La malattia è un’attesa continua. Una vita sospesa, messa in pausa. E il dolore è una prigione alta dalla quale non puoi evadere. Puoi solo aspettare che i portoni si aprano e tu potrai essere felice ancora solo allora. È un paese sconosciuto, la malattia. Una landa vasta. E dentro quel paese, scopri le tue terre nuove. Ci sono giorni in cui vedi guerra e desolazione dappertutto. Aride atmosfere. Scendi le scale fino ai posti più bui del tuo nome, tipo quando scendi in cantina senza luce, e fa freddo e un po’ hai paura. Altri giorni, torni in superficie, vedi acque piatte, distese calme, ed è bellissimo stare a galla su quelle onde lisce. Nude sincerità. In quei giorni, senti le carezze, ti nutri a piccoli sorsi di sorrisi e la luce si fa spazio in quei posti bui che avevi visitato poco prima. E rinasci per un attimo. Poi torni ad aspettare, fai la guerra al tempo. Ma va bene, le attese finiscono sempre. Una tregua. Respiri veloci e poi calmi.
Dalla finestra lì vicino entra un piccolo sole indistinto. Il mondo intorno mi sembra svanito, sbiadito. Ogni tanto, dalle sedie accanto si alzano persone e sprazzi di conversazioni. Riempitivi in attesa di qualche cura. Quanta gente malata esiste al mondo? Non siamo soli. Molte persone sono sotto i fiocchi di neve che cadono su di noi.
11.24. Pagina 364. Non finirò mai questo libro. Le uniche parole che riesco a leggere sono quelle silenziose del mio corpo. Giro la pagina. 
La porta scorrevole opaca si riapre di nuovo. È il suo medico. Ha un maglione rosso e gli occhiali e gli occhi piccoli. Mi alzo di scatto facendo cadere il libro ma senza raccoglierlo, spinta come un treno senza locomotiva dai miei pensieri.
Scusi, dottore, mi scusi. Sono la fidanzata di Stefano.
Mi dica.
Una brutta sensazione mi calma.
Volevo chiederle…sì, volevo sapere…Qual è la situazione? Guarirà, vero?
La situazione è preoccupante. Molto preoccupante. Ma stiamo facendo il possibile. Ora, mi scusi.
Sì, certo. Grazie. 
Sento manti di neve fredda sopra la testa. Cumuli pesanti. Strano, non nevica fuori eppure tutto sta crollando. Tutto si sgretola in tonfi uniformi. Quelle parole senza labbra mi hanno lasciato dentro un’ombra opprimente. Schiacciata fin sotto terra.
Preoccupante. Cosa vuol dire preoccupante? Preoccupante in che senso? La testa mi gira, il cuore si contrae e si fa piccolo dentro il petto. Non abbandonarmi, piccolo cuore, dobbiamo andare in oriente. Dobbiamo aspettare che guarisca per poi andare in oriente. Vorrei tanto che la mia mente diventi una stanza vuota perché ora ho bisogno di vomitare.
Mi dirigo come un corpo invisibile verso il bagno. Entro in quello delle femmine perché è più pulito al naso e alla vista, mi siedo sul pavimento, mi avvicino al gabinetto, aggrappata al bordo, faccio uscire dalla bocca il male e la nausea e tutti i pensieri. Mi pulisco la bocca e resto lì un attimo. Prendersi cura di chi si ama fa dimenticare di se stessi. Fa diventare incorporea la vita solida. Venti lenti e continui. E tu ti aggrappi agli scogli e ai gabinetti pubblici per non volare via. 
Riprendo il normale scorrere del mio respiro, mi alzo da quel pavimento bianco e sporco e mi lavo le mani due volte, mi metto un po’ di acqua sulla bocca senza guardarmi allo specchio ed esco all’aria aperta. Tutto è possibile, ma io voglio

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