“Penso, bambina, quando accanto a te
Potrò ancora sognare per un’ora
E nessuno vedrà,
Nessuno saprà mai,
La nostra gioia triste.”
(Cesare Pavese, Frammento di Prima di lavorare stanca)
L’ora sul display dell’orologio segna 11.08 del ventinovesimo giorno del mese di novembre. L’azzurro del finestrino sta gradualmente volgendo in rosa quarzo, pantone 13-1520, mentre il bianco delle nuvole intorno si fa più vivido, poi livido.
Dear passengers, captain’s speaking. We’ll be landing in about fifteen minutes at Lukla airport. The weather at destination is warm and sunny.
Il signore seduto da parte a me mi sorride. Ricambio e ritorno a guardare il finestrino. Siamo ancora molto in alto e tutto mi sembra profondo, sprofondare, anche se il fondo non si vede.
Quello che vedo è la mia immagine riflessa dentro quel finestrino e tutte le immagini che ho perso prima di imbarcarmi su questo aereo. Il tempo che è volato sopra il mio cielo, le persone che mi sono state intorno, l’emozione del suo sorriso che non riesco più a rivivere. Ogni volta che salivamo su un aereo facevamo finta di litigare e, alla fine, mi lasciava sempre il posto da parte al finestrino e, prima di decollare, appoggiava i suoi capelli sulla mia spalla e mi prendeva la mano e quel senso di leggerezza infinita. I suoi lunghi capelli scuri che profumavano di nocciole. Lei se n’è andata, il profumo di nocciole tostate al sole se n’è andato, e anche la bellezza e la giovinezza sono laggiù, da qualche parte che non ho mai più trovato.
Are you here on holiday?
Almost.
Are you traveling alone?
Almost.
Mi sorride di nuovo. Ho scoperto che più che la vita, è la morte che si vede negli occhi della gente. Avrà intravisto qualcosa anche lui.
I hope you’ll find what you’re looking for.
Già, quello che cerco. Non lo so nemmeno io cos’è quello che sto andando a cercare.
Mentre sento l’aereo avvicinarsi a terra, prendo dallo zaino i fogli del programma. Hari, il ragazzo con cui sono in contatto, dovrebbe già essere in aeroporto ad aspettarmi per il primo giorno di trekking per Bengkar salendo fino ai laghi di Gokyo. Controllo i dati dell’aereo di ritorno per Katmandu fra due settimane e mi sembra ci sia tutto. C’è anche una foto che ho stampato prima di partire. L’abbiamo scattata durante l’ultimo viaggio in Francia, una sera a Saint-Malo. Ogni volta che rivedo quella foto sorrido, un attimo di melodica nostalgia mi assale pensando a quando, qualche settimana prima che tutto finisse, mi ha inviato questa foto con un sms, aggiungendo: “Non so cosa la vita ha in serbo per noi, non so dove finiremo alla fine di questa strada né come ci arriveremo. Oggi sono certa che ogni momento condiviso al tuo fianco è custodito nei miei ricordi di felicità e per questo ti dico grazie. Non conta davvero quanto si soffre, conta quanta felicità riesci a respirare mentre pensi che tutto vada male. Sei sempre con me, in ogni momento. Ti amo”. Era sempre più brava di me a scrivere i messaggi.
Il ricordo di quei giorni sfuma di nuovo dentro la realtà quando il signore ormai in piedi mi saluta. Aspetto che la gente defluisca lungo lo stretto corridoio di moquette marrone prima di alzarmi e intanto tolgo la modalità aereo dal telefono che inizia a vibrare. Un messaggio di mia mamma: “Ciao Stefi. Buon viaggio, chiama quando puoi. Mamma e papà”. Poi un altro di mia suocera con allegata una foto: “La Dotty ti augura buon viaggio e anche noi. Ti aspettiamo al ritorno per una bella cena”. E qualche messaggio su whatsapp, di auguri per lo più. Li leggerò dopo.
Metto lo zaino su una spalla e mi avvio verso l’uscita dell’aereo lungo il corridoio ormai vuoto.
Dopo i controlli e il recupero bagagli, esco dall’area arrivi dell’aeroporto sbucando da una porta scorrevole e trovo un piccolo ragazzo dai capelli neri con un cartello fatto di cartone e una scritta in pennarello nero: Mr. Stefano.
Namaste.
Namaste.
Mi prende lo zaino e usciamo dall’edificio decadente dirigendoci verso