“Due linee parallele s’incontrano all’infinito- e ci credono”
(Stanislaw Jerzy Lec)
Sì, lo so. Hai ragione, Gio. Se avessi accettato quel lavoro al bar dieci anni fa forse a quest’ora sarei in grado di cucinare almeno una piadina con prosciutto cotto e formaggio al volo. Ma ora non ho tempo di mettermi a cucinare. Sono in ritradissimo e devo ancora prepararmi.
A che ora è l’evento?
Dieci minuti fa.
Dove?
Qui vicino. Un vernissage. Inaugurano una nuova galerie nel V° Arrondissement. In questa città se non fanno un’apertura a settimana si annoiano, mentre io muoio solo dalla voglia di andare a dormire.
Mentre parlo e ascolto e cammino per la camera da letto impacchettata in carta da parati pastello, tengo il telefono tra l’orecchio e la spalla, alla ricerca di quel vestito nero. Eccolo.
E poi, ora che ci penso, se avessi accettato quel lavoro al bar dieci anni fa, a quest’ora non vivrei a Parigi e sarei probabilmente rinchiusa dentro l’aria asfissiante della provincia del nord Italia. E tu sai quanto ritenga detestabile l’aria di provincia del nord Italia.
Sei la solita snob.
E tu mi stai facendo fare tardi. Dai, ti scrivo domani quando finisci al ristorante, così mi dici come è andata e io ti dico quanti bicchieri di rosé ho dovuto bere per non morire di noia. Spero solo non ci sia Javier.
Dici che c’è?
Forse. Non so. Spero di no. Per me è un capitolo sepolto. Ma poi ogni volta si mette a parlare e parlare e sproloquiare che mi chiedo come ho fatto a starci insieme per un anno.
Aggiornami. E mangia almeno una crêpes alla nutella sulla strada.
Promesso.
Attacco e butto l’iPhone sul letto affollato dai troppi oggetti. Camicette in voile, smalti rosa e rossi, diari sbavati di biro blu, libri con pagine gialle e pieghe sui bordi, ricordi vecchi e nuovi. Mi metto il rossetto chiaro e il profumo forte, un’eau de parfum di quella maison dal nome molto francese, prendo dalla scarpiera un paio di sandali aperti e dorati. Infilo nella piccola borsa a mano qualche cianfrusaglia che ritengo utile per la serata, afferro il cappottino leggero bianco tra le mani e sono fuori di casa.
Aprile è fresco e fluido. Le prime luci della sera, gli alberi dei viali carichi delle foglie di primavera appena ritornate, rinate, e l’aria nuova passa dentro i capelli scuri. Questo nuovo taglio corto mi piace proprio.
Sento il ticchettare dei tacchi sui ciottoli sbeccati di questa vecchia città che amo molto, da molto tempo. Sento da sempre. Intorno, mi accerchia il vivo vociare della gente seduta ai tavolini dei bar stretti, cenni continui dei capi, orme odorose e sporche, suoni chiassosi di una città antica sempre viva. Quante persone sono passate di qua?
Tra le viuzze attorcigliate dietro Saint-Germain-des-Près, riconosco la mia destinazione quando intravedo da lontano una piccola folla di persone ben vestite che si parlano uno addosso all’altra, e mi chiedo perché non me ne sono stata nel caos pacifico della mia camera da letto. Per fortuna domattina non lavoro.
Ah, mais tu es arrivée. Je pensais que tu ne viendrais pas.
Salut, Francine. Désolée, j’ai reçu un appel du travail….
Viens, viens chérie. Je te presente tous.
Il copione è sempre quello, ogni volta, quasi ogni settimana: locale piccolo con vetrate grandi, qualche opera avanguardista che nessuno guarda, folle di sconosciuti che conversano a mazzi di pochi minuti, musica troppo alta e vino che non puoi permetterti in brutti bicchieri di plastica. Tiepidi tentativi di boriosi bovarisimi contemporanei.
Mi ci vuole un drink per ambientarmi e queste scarpe lo sapevo non andavano bene per camminare per così tanto.
Mi avvicino al bancone del bar e in un continuo giramento di occhi, cercando di captare qualche volto conosciuto, ho come un sensazione di essere calamitata dentro uno spazio sconosciuto, un richiamo lontano, e intercetto gli occhi di un ragazzo che non conosco. Alto, capelli castano chiaro, indossa una t-shirt nera e una giacca verde. Mi guarda anche lui. Ha degli occhi davvero belli.
Ciao.
Hey, ciao Javier.
Speravo venissi.
Già. Eccomi. Non mi fermo molto, domani lavoro presto.
Hai tagliato i capelli. Stai bene con il caschetto così corto.
Merci.
Sai, volevo chiederti…
Scusa, ho visto Odette e devo assolutamente salutarla.
Scivolo come un gatto bianco dalla conversazione ed esco all’aria aperta che ha preso i colori della prima notte. Sottovento, arrivano sciami di intensi odori metropolitani, profumi che risvegliano luoghi nascosti di ricordi ora liberi, istinti lontani, che mi fanno dimenticare la terra concreta.
Lavoro?
Una voce nuova mi si attira addosso. È quel ragazzo di prima. Sta fumando una sigaretta fuori dal locale, ora svuotato.
Ah, no, magari. Uno che conosco.
Bevo un sorso dal bicchiere macchiato di gocce di alcool. Questo drink è decisamente annacquato.
Sei italiano…
Ciao, mi chiamo