“La prima volta non fu quando ci spogliammo ma qualche giorno prima, mentre parlavi sotto un albero. Sentivo zone lontane del mio corpo che tornavano a casa.”
(Franco Arminio)
Le lancette dell’orologio sulla banchina sette della stazione fanno uno scatto in avanti: le 16.08 dell’ultimo giorno del mese di ottobre e una silenziosa aria fresca sorpassa le persone accaldate dalla calca per salire su un treno arrivato in ritardo.
Il treno regionale 2505 delle ore 16.20 è in partenza dal binario 7.
Seduta su un sedile blu di seconda classe, apro il quaderno degli appunti mentre aspetto che questo treno anacronistico sicuramente in ritardo mi riporti alla normalità della quotidianità di provincia.
Le situazioni possessorie: differente dal diritto di godere e disporre di un determinato bene (proprietà) è il fatto di effettivamente godere e disporre di detto bene.
Domani devo darci dentro con diritto privato se no rischio di saltare la sessione invernale.
Alzo lo sguardo dai fogli scarabocchiati di biro nera con stelline stilizzate e grechine infantili che fuoriescono dall’evidenziatore giallo e, riflessa nel finestrino di vetri doppi mai puliti, vedo specchiata la mia immagine di ragazza: ventuno anni, iscritta senza averci fatto più di tanto caso al secondo anno di Relazioni Internazionali, alta il giusto, carina il normale, tonica come l’acqua fresca in estate. Probabilmente, chi mi guarda dall’altro lato del vetro camminando sulla banchina trascinando zaini sformati e svogliate responsabilità, vedrebbe una di quelle ragazze che rientrano nella media statistica di chi fa la pendolare per rimandare l’ingresso nell’indecifrabile mondo del lavoro, e al supermercato prendono con convinzione il vino dallo scaffale delle offerte a meno di quattro euro comprato con i soldi delle ripetizioni di inglese date a qualche vicino di casa viziato e annoiato.
Ciao Charlotte. Che figata che ti ho beccata.
Una voce in sottofondo riattrae la mia mente dentro quel treno maleodorante.
Hey, ciao Jo.
Sposto la borsa grande con dentro i libri pesanti e i quaderni ingrassati a furia di scriverci sopra, e le faccio spazio sul sedile di fronte a me.
È un sacco che non ti vedo. Come stai?
Presa dalla sessione d’esame e da questi vetri sporchi.
Come?
Niente, lascia perdere. È che questa monotonia da pendolare non fa per me.
Sei la solita snob.
E si toglie la giacca di pelle, portandosela sulle gambe per non occupare troppo spazio.
Tu, come stai? Stai ancora lavorando in quel bar?
Sì, passo più tempo lì che in biblioteca, a dir la verità, mi sa che salto la sessione invernale. Adesso, appena arrivo a casa, mi devo cambiare di corsa che poi inizio il turno. Lavoro lì da due anni e non sei ancora passata a trovarmi, sei scandalosa.
Sai che non sono tipo da pub.
Lo dico accorgendomi di non guardarla negli occhi per non vedere nemmeno i miei, perché la realtà è che non so neanche io che tipo sono. Una caffetteria che profuma di design asettico del nord Europa, un club notturno di una metropoli affannata, un bistrot con le candele sui tavoli in una vietta odorosa?
Secondo me, invece, ti innamoreresti a prima vista.
Mentre lo dice, vedo fuori dal finestrino e sopra la banchina due ragazzi che si tengono per mano. Lei ha i capelli castani e lunghi fino alle spalle, mentre lui indossa dei grossi occhiali da sole e le tiene la mano per l’estremità delle dita, una carezza ferma che la tiene a sé.
Non credo proprio. Forse se mi pagassi, verrei.
Non scherzare che stiamo davvero cercando una cameriera; quella di prima se n’è andata la scorsa settimana. È andata a fare un anno all’estero. A proposito, quando hai la selezione per l’Erasmus?
Fra poco, prima di Natale. Se mi prendono, l’anno prossimo parto, ma i miei non lo sanno ancora.
E dove hai fatto richiesta?
Madrid o Parigi. Prendono solo due persone per città. Comunque, dai, magari passo uno di questi giorni al pub che mi piacerebbe guadagnare qualcosina oltre ai soldi delle ripetizioni.
Dici sul serio?
Finché non ci ripenso.
Dai, sarebbe bellissimo. Guarda che ci divertiamo un sacco. Se vuoi, passa già stasera che sono di turno, così ti presento il capo. Tipo intorno alle dieci, che poi c’è la festa di Halloween con musica dal vivo e ci sarà un casino pazzesco.
Me lo dice sulla banchina del treno con il sole di fine ottobre che dipinge i sorrisi leggeri dei vent'anni e, mentre la vedo allontanarsi sulle sue scarpe da ginnastica troppo usate, l’unica cosa che riesco a pensare è che odio la musica dal vivo quasi quanto la notte di Halloween e i miei appunti di diritto privato.
Il chiasso dei clacson, il delizioso profumo delle foglie arancioni sugli alberi e per terra, e la calma leggerezza dell’aria che sale poco prima che il sole scenda, mi accompagnano mentre risalgo la strada verso casa con la grossa borsa ancorata sulla spalla, e ho come una frequente sensazione presente di essere sola e lontana su questa strada, di sentire per la prima volta un vuoto lì da parte a me, l’assenza di qualcosa di importante, come dentro una stanza vuota che aspetta di essere accesa.
Il telefonino vibra dentro la tasca della giacca di pelle.
Stase andiamo a 1 festa in maskera, c6?
OK. Vi raggiungo cn la mia makkina.
Il sole pallido gira sotto una nube e il velo della prima sera cade sulla monotonia di provincia, e io mi ritrovo seduta sul divano a schiacciare i tasti sbiaditi di un telecomando nero ripensando alla promessa fatta su quel treno in ritardo poco prima.
Massì, domani mando un sms a Jo e le chiedo scusa per non essere passata. Meglio che mi concentri sugli esami di questa sessione se voglio fare una bella figura alla selezione per l’Erasmus.
Vedo immagini future formarsi oltre il tempo e dentro la mia mente, mia mamma che mescola con forza il risotto che sa di autunno mentre Ugo, il mio gatto con tre zampe, si passa la lingua ruvida sui polpastrelli gommosi dopo aver trascorso il suo pomeriggio tra odori umidi e foglie secche. La normalità della quotidianità di provincia.
L’orologio a pendolo della sala dall’altra parte della casa suona esattamente le dieci di sera e i dieci rintocchi cadenzati si mescolano con il vociare incessante della tv di sottofondo, il passare dei pensieri senza freni, le nuvole lassù sopra i tetti freddi.
Siamo sempre alla ricerca di qualcosa, un qualcosa che di sicuro non troverò mai stando seduta su questo letto con la televisione svogliatamente accesa. E in fondo non c’è niente davvero da perdere tranne quello che già conosci dentro la noia di una breve memoria passata.
Ciao, io esco.
Infilo il nuovo cappotto bianco comprato qualche pomeriggio fa mentre avrei dovuto essere a lezione e mi tuffo nell’aria aperta fresca e nella luce della notte come le falene in estate che non hanno mai paura del buio ma lo attraversano attirate da forti fonti luminose. E le orme di questa serata che lascio dietro di me le vedo come i passi di una danza di cui conosco ogni mossa. Una danza nuova, un ritmo che funziona, una sensazione ad andare sempre un po’ più in là. Chissà dove si va.
Mentre schiocco con il dito la freccia della macchina verso destra e imbocco la rotonda, alla radio suonano una delle hit dell’anno, un gruppo americano dal blando tono rock le cui chance di rimanere impressi è che la canzone passi in qualche telefilm drammatico:
Let's waste time
Chasing cars
Around our heads
I need your grace
To remind me
To find my own
Nel mezzo di una grande via a doppio senso, rallento quando capisco di essere arrivata al punto di incontro. A destra, il lago scuro e noncurante della mia presenza mi sta osservando con il silenzio delle onde che sbatte sulle barche attraccate quasi abbandonate in attesa di essere ripescate la prossima estate; a sinistra, c’è quel locale dai vetri appannati e illuminati che per un attimo mi è sembrato dicesse Eccoti.
Alcune macchine sono disposte disordinate in doppia fila con incessanti frecce intermittenti mentre i parcheggi sono già tutti pieni. Dai, torno a casa che fa pure freddo stasera e io il freddo lo odio davvero, quasi quanto la notte di Halloween, la musica da vivo e gli appunti di diritto privato.
Faccio una inversione a U e cambio direzione, dritta e diretta verso quel mondo che già conosco, quella casa con il vialetto di ghiaia chiara, quella camera piena di libri e foto con i bordi incurvati, quella vita che scorre senza fermarsi, quando dallo specchietto retrovisore vedo una macchina uscire da uno dei parcheggi, lasciando un posto libero davanti a quel locale e di fronte a una bottega dalla bella insegna azzurra dallo stile retro: Alimentari e Tabacchi.
Calmo e cauto è il tempo davanti a quel locale e questa notte che come altre sono passate di qua senza che me ne accorgessi e, senza ben sapere quello che sto facendo, apro la pesante porta verde del locale, scaraventandoci addosso tutto il mio piccolo corpo. Dal silenzio di una notte di quasi inverno fuori, vengo travolta da una voragine di persone, musica, energia, vita dentro.
Cos’è questa estasi calda? Cos’è questo tremore calmo? Me lo chiedo venendo trascinata dentro un nuovo mondo da personaggi in festa, con ragazzi a cui piace fare chiasso, schiamazzo, saltare, avanzare dentro la notte fino alle prime luci del domani, fare giravolte e muovere con forza i capelli spettinati, bere in grossi bicchieri e abbracciarsi e stringersi i corpi tra di loro. Mi sembra di vedere le cose lontane che si fanno sfumate, le parole svanite, svenute per terra e nell’aria, mentre in piedi da parte a me mi girano intorno, saltando e cantando, tutte le mie emozioni come a volermi invitare a ballare, ma l’unico suono che riesco a sentire è ancora quella voce sottile che si avvicina all’orecchio e mi dice nuovamente Eccoti, solo che da parte a me non c’è nessuno.
Questo posto è decisamente affollato e se non trovo la mia amica Jo non arriverò mai all’altra festa.
Arranco sgomitando fino al pesante bancone di mogano scuro, uno di quelli che vedi nei pub irlandesi nelle vacanze studio all’estero. Chissà se anche a Madrid o Parigi ci sono dei pub così. Un tizio alto con un boccale stracolmo in mano si gira di scatto, facendo cadere della birra giallognola sul mio cappotto nuovo e pulito.
Hey, stai attento.
E scompare nella folata di gente.
In un continuo giramento di occhi, tra braccia che si muovono, voci che si affollano e vassoi pieni che si spostano, vengo attraversata senza preavviso da una rivelazione improvvisa, una coscienza celeste, un risveglio in un sogno, un cambio di rotta violento dopo la collisione con un’altra auto.
Ho sempre avuto paura degli incidenti auto, eppure, ne sono attratta, tipo quella sensazione di chiara certezza che prima o poi capiterà anche a me. Succede e basta.
Nessuno, d’altronde, vuole mai innamorarsi, succede sempre così, come un incidente d’auto. Lo ho letto una volta su un blog.
E mi ritrovo con gli occhi chiusi mentre si spalancano, con lo stupore che paralizza le ossa mentre le rende libere.
Nessuno si accorge tranne me. Hey, scusa, hai visto anche tu questa luce? Quella cosa che succede nei film, ma i film non esistono nella realtà. Forse sono l’unica sveglia al mondo, l’unica che vede la scena fermarsi, avvicinarsi, un giardino segreto intorno, un secondo incatenato dentro un altro tempo. Lo sguardo di un ragazzo dietro al bancone che sta velocemente appoggiando bicchieri e birre su un vassoio per qualcuno intorno che non fa più parte di questo mio mondo.
Un flash, un fascio di luce come nelle tempeste d’estate che cambiano il colore del cielo nell’attimo di un secondo. A volte per sempre è solo un attimo, e io in questo attimo ci vivrei una vita intera.
Due piccoli occhi azzurri che trapassano la mia nuova anima rivelata.
Un colpo di fulmine.
Un faro nell’eternità.
Photo: Nel mezzo di una grande via a doppio senso, rallento quando capisco di essere arrivata al punto di incontro. Sulla destra un lago scuro e silenzioso a guardarmi, sulla sinistra un locale dai vetri appannati e illuminati ad aspettarmi. Dove si andrà?
Ci vediamo martedì prossimo con il capitolo #2
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