Did you say it? I love you. I do not ever want to live without you. You changed my life. Did you say it? Make a plan. Set a goal. Work toward it. But every now and then, look around. Drink it in. ‘Cause, this is it.
It may all be gone tomorrow.
(Grey’s Anatomy 5x24)
Venerdì 29 gennaio 2021
L’acqua che scorre fa un rumore frusciante, strusciando fresca sulle pareti della mia mente. Una cascata sulle fronde di una foresta di Bali. Lo sciacquone del water. Dove sono? Che ore sono?
Jacques?
Non è niente, Pan Pan. Non avrò digerito, torna a dormire.
Spegne la luce e si rimette sotto le coperte e il suo corpo per un attimo mi sembra piccolo e freddo. Glielo avvolgo con le mie sottili braccia, come un’onda tiepida e calma in mezzo al mare.
Dormi, Jacques. Ci sono io qui con te.
Il cielo fuori dalla finestra e nero e fitto e per non vederlo chiudo gli occhi, ignara della vita che mi aspetta al risveglio.
Il suono della sveglia si confonde con lo stesso rumore della notte. Vomito. Una, due, tre, sette volte.
Di scatto, corro verso il bagno con i piedi nudi che si fanno immediatamente freddi come gli occhi e altre parti del corpo che non mi sembra più di sentire. È lì per terra con le luci spente e la mani che provano a tenere la testa insieme a una manciata di terrore bianco.
Non ce la faccio più. Non ce la faccio più, Pan Pan.
Le parole gli escono così, come un getto che non puoi più trattenere, un conato che hai provato a ingurgitare per troppo tempo, come le mie lacrime che sono sull’orlo del precipizio.
Mi accovaccio in quel buio accanto a lui, dove splende sempre il giorno, con un solo braccio lo abbraccio e lo accolgo dentro di me baciandogli la testa, le mani, la bocca, il petto, il collo, gli occhi, le orecchie, ogni parte di quel corpo che ancora vive. E guardandoci dentro l’immagine riflessa dello specchio, saluto chiudendo gli occhi le nostre anime giovani che ai miei occhi rimarranno sempre così, alte, nude, forti.
Vieni, Jacques, alzati. Mettiti un attimo a letto. Ora ti vesto e ti porto in ospedale e starai meglio. Vedrai, starai meglio.
Sento il suono di un carillon malinconico che gira di fronte al mare mentre aspettiamo in un corridoio su una barella, entra in un ascensore, fa una tac, gli prelevano il sangue, gli stampano gli esiti, parlo con i medici, gli accarezzo la testa, lo accompagno nella sua stanza.
Dormi qui stanotte, Jacques. Vedrai che domani starai meglio.
E tu cosa fai, Pan Pan?
Guardo il cielo e penso a quella notte in cima alla Tour Eiffel.
La verità è che spero di non dormire per non dover sentire i silenzi assoluti e vedere quel buio fitto che sento mi sta inseguendo.
Arrivata a casa, chiudo la porta, tolgo le scarpe, apro l’acqua della doccia, spengo la luce, accendo una candela e gli mando un messaggio della buona notte:
Sabato 30 gennaio 2021
l cielo al risveglio da un sogno intermittente mischia il rosa delle prime ore di luce con l’azzurro della notte che si sta ora addormentando.Chissà se lui avrà dormito?
Avvicino il cuore affacciato alla finestra mentre aspetto il gorgogliare del caffè, e ingabbiato nel petto prova a uscire facendo un sussulto quando si sofferma a guardare la montagna di fronte e poco lontano, è la montagna sulla quale anche lui una volta è salito. Mi sembra di vederlo, come un piccolo puntino sulla cima di quella montagna. E mi procura una strana sensazione di calma questa immagine, di lui vicino al cielo leggero.
Prendo il telefono e scatto una foto e gliela mando con un iMessage:
Hey, tu! Ciao. Mi sei mancato stanotte. Ti va se ti chiamo?
Aspetto che risponda e penso che potrei aspettare per sempre, come se fossi nata per questo. Come se lui morisse per questo. Riempio lo spazio vuoto e la borsa grande di cose dalla felicità fragile che in questo momento incerto ha la forma tangibile di biscotti rotondi ripieni di dischi di cioccolato, dolci ricoperti da granelle di zucchero che finiscono per staccarsi sempre e finire sul fondo del sacchetto, il libro sul comodino e un altro che gli piace, un pacchetto di fazzoletti, qualche paio di calze e una manciata di normalità in questa giornata di lungo inverno. Mi vedo fare tutto questo con movimenti meccanici e metodici senza neanche sentire la musica che suona in sottofondo o le voci della città fuori dalla finestra aperta. Sento solo il labbro superiore toccare quello inferiore mentre continuo a ripetere le domande che devo fare ai medici e i farmaci che gli devo portare, e mentre guido verso la sua stanza di ospedale vedo sull’asfalto un’ombra che resta ferma mentre io vado avanti.
Sulla soglia del reparto dove è ricoverato i medici mi parlano e provano a rincorrere la mia attenzione con parole a raffica, e i miei occhi fissano ora le loro di labbra che si muovono e producono dei suoni ovattati: oggi sta meglio, tutto il resto può restare fuori ad aspettare.
Ciao, Pan Pan.
Gli sorrido abbassando la mascherina e in un attimo sono sulle sue labbra. È come se sentissi il bisogno fisico di toccare la sua superficie e farlo entrare dentro di me, così sono certa che non se ne andrà mai via. Mai lontano. Mai più separati. Non lasciarmi.
Passiamo il pomeriggio a sfiorarci con le parole e con i gesti. Sento i pensieri sotto la superficie della mia pelle che corrono molto veloci, inafferrabili e, ogni volta che lo accarezzo, sento anche i suoi di pensieri segreti che scorrono, ma non li facciamo evaporare fuori dal nostro corpo, come se non volessimo o non avessimo il coraggio sprecare quel lieve tempo con discorsi che ci sporcano i sogni e i bisogni vitali.
Gli leggo un libro che parla di un quadro che abbiamo visto non molto tempo fa lontano da qua, ascoltiamo delle canzoni che ci riportano a racconti futuri, gli racconto un aneddoto che gli fa fare quel sorriso che mi fa atterrare per un secondo su un’oasi di sole e sale, al sicuro dal mare mosso e scuro in cui siamo ora.
Mentre ride, si sfrega con la mano la testa. Gli prendo l’altra di mano, rimasta sulla coperta e gliela stringo calmandolo con gli occhi.
Hey, Jacques, perché non provi a chiudere gli occhi, per un secondo, pensare a un risveglio sotto il cielo blu di Provenza pieno di croissant e marmellate fresche, momenti lenti sotto le lenzuola profumate e le finestre aperte, passeggiate senza meta e caffè in qualche posticino che ci piace tanto, un po’ di shopping in qualche via nascosta che abbiamo trovato per caso dove tu mi compri un libro di poesie e poi una cena dove chiediamo il bis di baguette.
Sarebbe bello, Pan Pan. Quando, quando andiamo?
Adesso, nei tuoi sogni. Questa primavera nella realtà. Dormi un po’ ora, che sei stanco.
Mentre dorme avvolto da quelle luci al neon che mi sembrano verdi o forse è quella nausea nascosta che mi fa sembrare tutto malato anche le pareti intorno, mi rendo conto che siamo in questa parte di mondo solo per amare e preoccuparci delle persone cui teniamo e continuare ad amarle oltre la preoccupazione, oltre la paura della sofferenza. Non c’è altro posto dove vorrei essere. E nel vuoto dei nostri corpi stanchi, capisco che dopo tutto non conta essere, conta solo esserci.
La sera piuttosto tardi, rientro a casa e, aprendo la porta, trovo sul tavolo la cena pronta cucinata dai miei amici e un mazzo di fiori accompagnato da un biglietto: “Fiore dopo fiore, inizia la primavera”.
Nel respiro trattengo tutto dentro, il male, il bene, i ricordi, il futuro. Ce la posso fare. Ce la faremo, Jacques:
Domenica 31 gennaio 2021
Che rumore fa la domenica? Latte versato nelle ciotole, campane lontane, passi lenti, pagine che girano, olio che salta nella padella, una vecchia canzone jazz.
Di sicuro, questa mia nuova domenica porta al risveglio il suono di una solitudine prima e l’immagine di nuovi rituali che non ricordo di aver davvero scelto: il gorgogliare della moka piccola, il tonfo profondo del cuore guardando di nuovo quella montagna, il battere meccanico dei polpastrelli sui tasti del telefono.
Un giorno di cose e caos dove le emozioni sembrano essere volate oltre la finestra e l’orizzonte di quella montagna alta. O forse sono semplicemente triste perché oggi non ci vedremo e, nonostante questo, il cielo è limpido e bello, come se non si accorgesse di me, di quello che gli sta succedendo e di dove stiamo precipitando. Come se il mondo non si inclinasse per il rumore delle emozioni che cadono a terra e si rompono.
Il telefono fa piccoli continui scatti obliqui.
Buongiorno, Jacques. Hai dormito? Come ti senti stamattina? È già arrivata tua sorella?
Provare a ristabilire un contatto con la banalità mi riporta sulla superficie del mondo, e anche delle conversazioni apparentemente prive di significato riescono a rimettere insieme quei pezzi rotti in modo permanente.
E tu cosa fai oggi, Pan Pan?
Farò tutte quelle cose che sanno di domenica: guardo il cielo, ascolto il silenzio e lavo la macchina.
Ma tu non sai lavare la macchina.
In realtà, cerco solo un modo di correre lontano dal suono di quella solitudine. Alla fine, l’unica cosa che posso fare per calmare i pensieri è pensare che, forse, tutto questo non sta succedendo o se sta succedendo, è un posto molto lontano da qua.
Parcheggiata alla fine della giornata, mentre guardo senza dire una parola cieli scuri e stelle indifferenti, vengo riportata in carreggiata da un messaggio di sua sorella.
Tornata a casa. Gli mancate tu e Dotty.
Sorrido piano e piena, e prendo il telefono anche io prima di spegnere le stelle e scrivo a lui, mentre lo penso da solo in quel letto senza odore:
Lunedì 1 febbraio 2021
Stamattina le montagne non si vedono. Sono coperte da nuvole grigie e basse, come a salutare quella nuova nostalgia mattutina. Una solitudine in anteprima. Piccole lacrime si sciolgono su strati di marmellata al lampone mentre faccio colazione.
Apro il computer e provo a lavorare eseguendo movimenti guidati da un senso di dovere inerte, ma un senso di affanno insistente mi rincorre. Sento qualcosa, lo sento costantemente avvicinarsi di corsa.
Respira, Charlotte, respira. Fra poco sarai da lui.
Dopo pranzo ci avvisano che lo spostano in una stanza nuova, una stanza singola, tutta per lui. Che fortuna, penso. Dopo tutto, perché mai lamentarsi, siamo sempre così fortunati.
Gli imbottisco il cuscino dando dei piccoli forti colpi mentre parla con un’infermiera e gli rivolge quel suo sorriso che sa di sole d’autunno.
Aspettami qui, Amore. Arrivo subito, vado un secondo a parlare con i medici del nuovo reparto.
Mentre cammino per i corridoi vuoti che da grandi diventano enormi, o forse sono solo io che mi faccio sempre più piccola, schiacciata dalla realtà, continuo a sentire quella sensazione che mi rincorre. Come una voce lontana che cerca di dirmi qualcosa, di prendermi la mano, ma non in modo gentile, più uno strattone che ti tira a terra, fino a sotto.
Questi pensieri si dissolvono nella realtà quando arrivo nella stanza dei medici. Sono due donne, una più giovane dell’altra, ma entrambe vestite in modo accomodante. Iniziamo a parlarmi con un tono calmo e caldo ma i loro sguardi portano dentro montagne di ghiaccio, come a dirmi qualcosa senza dire parole.
Quella continua sensazione di corsa si siede dentro di me, come un sicario che aspetta che lo guardi dritto negli occhi.
Così, non avendo avendo più le forze di interpretare quegli occhi, lo chiedo a voce alta.
Dottoressa, quanto manca?
Non credevo avrei mai avuto il coraggio di mettere insieme quella frase e farla uscire da dentro di me.
La dottoressa più giovane si fa rossa in viso e trattiene le lacrime mentre mi guarda. No, ora che guardo meglio, sta proprio piangendo. Perché piange?
La situazione è grave: stiamo continuando a trattare l’edema e per ora sembra dare risultati, ma le metastasi in testa iniziano a preoccupare: faremo una tac oggi per monitorare. Ma parliamo comunque di mesi, tre. Sei, se il suo fisico risponde.
Mentre parla, sento che sono finita in un mondo staccato da questo, un satellite che sorvola la terra sottostante che non sento più sotto i piedi. In questo satellite è caduta un’ombra, scura, un filtro che mi fa vedere il mondo sotto per come è davvero: senza colori.
Rientro in camera con passi di piombo e vengo riportata a terra dalla sua voce che sa di mare chiaro.
Allora, Pan Pan, che ti ha detto il medico? Come ti è sembrata?
Parla e una leggera luce dalla finestra gli scalda la guancia destra.
Ciao, Jacques, che bello che sei. Va tutto bene. Tra pochi giorni torni a casa.
Decido di non dirgli niente. Perché dovrei dirgli qualcosa? Qual è lo scopo di una privazione terrena?
Resto con lui qualche ora, poi lo saluto. Ho bisogno di aria. Ho bisogno di urlare, anche se so non lo farò. Ho bisogno di toccare la disperazione pensando a lui inghiottito nell’eternità senza di me. Ho bisogno di trovare un universo dove tutto questo non sta succedendo. E vedo chiaramente le stelle dei ricordi esplodere intorno a noi:
Martedì 2 febbraio 2021
Ho una chiara percezione di me e dello spazio quando suona il telefono. Sono in mansarda, nel mio studio in casa davanti al computer e un documento di testo mezzo vuoto e scritto male. È strano come la vita continui il corso lungo la sua strada anche se tutti gli argini sprofondano come sabbie mobili.
Vedo sul display un numero di un’altra città.
Ciao, Charlotte. Sono Lorenza, la dottoressa di Stefano. Ho trovato il tuo numero tra i recapiti che ha lasciato per evenienze.
Lorenza. Non l’avevo mai sentita chiamarsi con il suo nome di battesimo. Eppure, quella voce la conosco così bene, l’ho sentita così tanto, ogni mese per quattro anni. Mi provoca un senso di casa e smarrimento allo stesso tempo.
Buongiorno, dottoressa, come sta?
È come se non volessi darle lo spazio di entrare dentro di me, così la stordisco di domande e frasi senza senso apparente, ma sento che non vuole portare la conversazione verso di me. Perché, semplicemente, un senso non c’è.
Charlotte, ci dobbiamo preparare. La situazione è ormai chiara: ho sentito gli oncologi dell’ospedale adesso e, a procurargli quei mal di testa non è l’edema come speravamo, ma le metastasi. L’edema è ormai sotto controllo, ma la tac di ieri sera ha rilevato un aumento delle metastasi al cervello, sono sempre di più e sempre più grandi. Parliamo di ore, giorni, considerando che Stefano è giovane e forte.
Quelle parole mi sembra che vadano oltre la mia mente, oltre i pori della mia pelle, come trafitte dentro il corpo e incastonate lì. Sento per sempre.
Mi spiace.
Chiudo la telefonata e fisso il buio che circonda la mia anima. E vedo il suo sorriso e mi sento vastamente grata per avere anche solo un giorno, anche solo un’ora in più insieme a lui e il nostro mondo.
Mi muovo come un treno senza locomotiva e sono già fuori dalla stanza 12 e i nostri occhi si incontrano per un attimo nuovo.
Hey, Pan Pan, che bello che sei già arrivata.
Sono sempre dove tu sei, Amore mio.
Dopo cena, sono di nuovo a casa, di nuovo nel silenzio di una notte di inverno e osservo la luna sopra i nostri cuori frantumati. Cerco la mia stella, cerco Stefano, cerco quella nostra isola che non c’è e che nessuno mai scoprirà, oltre i cieli di tempesta. Guardo appoggiata sul tavolo una foto scattata quest’estate, pieni di sole. È la sua foto preferita, me l’ha detto un giorno. Gliela mando:
Mercoledì 3 febbraio
Chissà com’era respirare davvero. Me lo chiedo alle 07.52 di mattina in una sala d’attesa del reparto di oncologia dell’ospedale mentre attendo l’esito del tampone che mi può dare la chiave d’accesso a questa prigione in cui spero di vivere tutta la vita. Perché spero che lui viva tutta la vita.
Seduta nel vuoto, inganno il tempo che non esiste più pensando a cosa sta succedendo, cosa gli sta succedendo e il mio corpo affonda, sprofonda dentro un abisso di pensieri bui. Diventa pesante e vola nel baratro più basso. Tocco la terra.
Prego, Charlotte, può andare da Stefano.
L’esito arriva nel tempo in cui un un blocco di panico sta per uscire dal mio corpo. E vengo risucchiata dentro quello spazio. Sento la porta chiudersi dietro di me. Non si torna più indietro.
Entro nella sua camera singola che, ora, ho capito non essere più un colpo di fortuna, ma una ultima richiesta di gentilezza dei medici per chi il tempo di respirare fuori da qui non l’avrà più.
Prendo la sedia e mi siedo da parte a lui che ancora dorme, e penso a tutte le volte che l’ho guardato dormire in quella posizione, con il braccio destro dietro la testa.
Hey, Pan Pan, che ci fai qui?
Avevi altri appuntamenti? Scherzo, non riuscivo a lavorare e i medici mi hanno detto che posso stare qui tutto il giorno, fino a cena e poi ti lascio ai tuoi appuntamenti.
Mentre ascolto la mia voce da fuori, penso che sia proprio vero che, a volte, ci raccontiamo così tante bugie per sentirci protetti, per tornare noi stessi. Chissà se lui sa. Chissà se sente tutto questo. Chissà se guardando dentro i miei occhi ha letto i miei pensieri o se, toccando la mia mano, ha sentito il mio cuore lentamente andarsi sgretolandosi.
Fuori è un giorno grigio, ma dentro quella stanza di ospedale sembra splendere un ultimo raggio di primavera, parlando di viaggi da rifare, sogni da realizzare e matrimoni da organizzare, il nostro.
Senti, Jacques, non abbiamo ancora pianificato i viaggi di quest’anno. A gennaio facciamo sempre la lista di dove vogliamo andare.
Lo dico pensando di volare oltre le sbarre di quella prigione sanificata. Un’evasione. Come ad assorbire le emozioni del mondo fuori da noi.
Allora, a Pasqua torniamo a Tel-Aviv, che voglio tornare a mangiare in quel posto nascosto per le stradine di Jaffa. Poi, a settembre, possiamo tornare per qualche giorno a New York, così incontriamo Fran Lebowitz. E poi, l’altro giorno mi hai promesso che in primavera torniamo anche in Provenza.
Guardarlo con quegli occhi così ancora pieni di vita lo fanno assomigliare a una farfalla. La parola greca per farfalla è psyché che significa anche anima. Sei un’anima pura che volerà oltre queste mura, vincerà la reclusione e la sofferenza e vivrà per sempre libero. Chissà se anche a me, senza di lui, toccherà la stessa leggerezza.
Una leggerezza che per il momento è rapita e segregata in un posto a me sconosciuto.
Torno fra poco, Jacques, sono arrivate tua mamma e tua sorella, così parlano anche loro con i medici, poi vengono a salutarti così stai un po’ con loro.
Resto lì per qualche ora, in sala d’aspetto, mentre lui è su quel letto da parte alla sua mamma, e sento le ore svuotarsi, dei momenti, di tutti i sentimenti che prima abitavano ogni cielo. E ora quei cieli sono muti.
Al mio rientro, poco prima di cena, arriva anche il suo amico Ale e sono felice. Felice di non sentirmi sola in questa fine che ci sta cadendo addosso.
Pan Pan, ma domani è il 4. Se torno a casa mi prepari i toast?
Certo, Jacques, e questa volta ti metto anche la maionese, promesso.
E gli stringo la mano più forte, questa volta per rafforzare il mio di pensiero e non farmi trascinare dentro le onde di lacrime che stanno per rompere gli argini del mio dolore quando, senza preavviso, la sua voce mi guarda dritto nel cuore e mi riporta a galla:
Pan Pan, ti va se ti chiedo di fermarti qui a dormire con me stanotte?
Giovedì 4 febbraio 2021
Dev’essere stato forte quel sentimento, se ancora lo ricordo. Quel senso di caos calmo, impercettibile, inafferrabile, quel silenzio bianco che ti dissolve per sempre. Ti prende senza che tu abbia le forze o la volontà di dimenarti o avere paura e ti rinchiude dentro un posto che non conosci e mai conoscerai e, quando ti riporta esattamente dov’eri, come se nulla fosse cambiato, come se nulla effettivamente sia cambiato, semplicemente non sei più quella di prima.
Le dita fino ai polpastrelli le sento diverse, e così la bocca, le palpebre che continuano uguale a prima a sbattere, la lingua che tocca il palato, la faccia che è sempre rossa e calda. Tutto è immutato, eppure tutto appartiene a qualcosa che non esiste più.
Anche il tempo ha un senso diverso, eppure le lancette fanno ancora il loro compito di scorrere da un numero all’altro. Meccanicamente. Tic. Tac.
Non so che ore sono quando realizzo questi pensieri. E non so neanche cosa sia a riportarmi dentro il mio corpo e quella stanza di ospedale: i bip delle macchine, il suo respiro sospeso nell’aria, i messaggi e le chiamate che inondano i miei dubbi, i nervi tesi per sempre lesi.
Mandamelo via. Mandamelo via, Amore. Ti prego.
Dategli qualcosa, per favore. Sta soffrendo troppo.
Ripercorro nella mente quei momenti di buio della notte prima. Prima che arrivasse il dottore a dargli quel qualcosa per favore, e mentre spinge il liquido della siringa nelle vene mi guarda dritto nei miei occhi che si sono fatti di pietra ghiacciata. Avrà avuto la mia età, quel dottore. E a me sembrava di stare in un tunnel stretto. Le ultime parole che gli ho sentito pronunciare e che ora sono scavate con il sangue dentro ogni particella della nuova me.
Mandamelo via, Amore.
Parole buie come un’ondata di oscurità che copre le case, le montagne, le stelle. È lì, in quel momento, che ho la sensazione che qualcosa della mia vita si è semplicemente esaurito. Coperto da un manto di neve silenziosa.
Mi chiedo cosa sarebbe successo se, la sera prima, non mi avesse chiesto di restare. Pan Pan, ti va se ti chiedo di fermarti qui a dormire con me stanotte? Se quella notte l’avesse passata da solo. Quelle parole sarei riuscita a sentirle lo stesso? Sarebbero riuscite a volare nel cielo fino al mio cuore? Che ne è ora del mio cuore? Lo sento come uno specchio rotto. Mi taglia da dentro.
Interrompo i pensieri mentre lui dorme e dorme e dorme e ancora dormirà. Ho paura che mi senta, senta i miei tormenti, senta le mie sensazioni, capti le mie paure ora che sono qui da sola da parte a lui senza di lui. Ma oggi è il 4, il nostro ultimo 4. Dobbiamo festeggiare, come facciamo ogni mese da quel luminoso 4 gennaio 2008 sotto le stelle d’inverno.
Prendo il telefono e, tenendogli la mano, sperando di svegliarlo, sperando che questo coma sia solo un sogno sotterraneo, gli leggo quella storia che gli ho letto il giorno prima e che gli era piaciuta così tanto.
È proprio una bella storia, Pan Pan, grazie per avermela raccontata, grazie per avermi sempre detto quanto mi ami:
Ci vediamo fra 2 martedì con il capitolo #22
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“Che ne è ora del mio cuore? Lo sento come uno specchio rotto. Mi taglia da dentro.”