“L'anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l'ha riguardato, invasa dall'onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. [...] Perché, oltre a venerare colui che possiede la bellezza, ha scoperto in lui l'unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell'anima, mio bell'amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore.”
(Platone)
Campi viola, fiori nel vento, forti folate, porte che sbattono, cammino, cammino a lungo, dove sto andando. Eccoti, ti ho visto, sei laggiù. Aspettami, hey aspettami, la vedi la mia mano che si allunga, cammino più veloce, la sua schiena, la giacca verde, la t-shirt nera. Hey, aspettami. Case sconosciute, case con alte finestre aperte, fiori alle finestre e sui prati bagnati, baci in cucina, pasta appena scolata, profumo di grosse foglie di basilico nei piatti di ceramica dipinti. Vieni, è pronto. Confido nel destino e in noi, ma se questo sarà crudele e non mi permetterà di stare con te, io ti giuro, farò di tutto per venire a cercarti ovunque, in qualsiasi luogo dell’universo. Sciami di stelle nell’universo, tempeste stellari nelle galassie. Corro, mi sono persa, affanni lontani, respiri vicini. Hey, girati, aspettami, sono qui. Afferrami la mano. Mi vedi? Sono qui. Solletico sui piedi, piedi umidi e consumati dal camminare. Una luce lontana, una porta che si apre, eccoti.
Riemergo da un sonno agitato. Sogni inespressi di speranze semplici. La Dotty ai piedi del letto che mi lecca i piedi nudi ora umidi. 6.53 di un martedì mattina d’inverno. Un nuovo giorno, lo stesso inizio.
Sì, arrivo, arrivo, adesso facciamo la pappa.
Infilo gli stessi piedi umidi nelle ciabatte grigie e la vestaglia sulle spalle bianche e ripercorro i gesti meccanici di una vita che conosco ma non riconosco.
Prendo la pappa, la appoggio sul pavimento, apparecchio la colazione, tovaglia, tazza, cucchiaino, fiori sul tavolo, musica melodica, note nuove, bella questa canzone, apro le finestre, la Dotty esce sul terrazzo, guardo i fiori secchi e le foglie gialle, apro la caffettiera piccola, mi fermo.
Merda, ho finito il caffè.
Salgo in bagno, mi guardo allo specchio, ero bella ora non più, non so, non sento, non mi vedo, mi lavo i denti, mi metto l’acqua fredda sulla faccia calda, spalmo la crema pastosa, mi spazzolo i capelli fino alle punte sulle spalle, stasera li lavo. Scelgo i vestiti, mutande nere, calze bianche, pantaloni grigi, maglione nero, scarpe grigie, berretto blu, cappotto blu, cuffie bianche e borsa bordeaux.
Vieni, Dotty, usciamo a comprare il caffè.
Iniziamo a camminare per le strade vuote di primo inverno avvolte da ovatta soffice e sospesa. Fa più freddo dentro che fuori, spinte da un vento che arriva da nord. Lunghe distese di aria del nord. Chissà da che nord arriva? Chi abita quel nord? Tutto accade perché deve accadere, come se non avessi nessuna presa su quello che mi succede, come se avessi la strana sensazione scorrevole di sprofondare e che il tempo non esiste più. Un artefatto fatto per aiutare le persone reali a scandire i momenti e i gesti, quei gesti che io non abito più. Sono reale?
Percorriamo il fiume su prati rigidi di rugiada, imbocchiamo il lago, incrociamo lo sguardo mattutino di persone conosciute, scambi di occhi e saluti veloci. Buona giornata, Arrivederci. Guardo le montagne che escono dal cielo che si sta facendo azzurro dentro il grigio delle prime ore di dicembre e sorrido pensando a come avrebbe sorriso, seduto su quella panchina rovinata.
Vieni, Pan Pan. Siediti. Guardiamo le anatre nel fiume.
Perché dovremmo guardare le anatre nel fiume, Jacques?
Perché non dovremmo?
Parole semplici, suoni gentili, filtri sulla vita.
Mi siedo ogni volta che ci passo davanti e mi immagino come sarebbe diverso il mio oggi se non avessi avuto quel ieri. Non ho semplicemente paura di vederlo dissolversi, ho paura di non aver più nessuno da aspettare.
Sento questa ferita che mi consuma lasciando sull’asfalto gocce di ricordi visibili solo a me, e arriviamo al negozio che vende il caffè. È molto presto ma c’è una persona davanti a me. Aspetto e passo nel catalogo della mente tutti i tanti prodotti appoggiati metodicamente sugli scaffali: biscotti grossi in rumorosi sacchetti trasparenti, pacchi di pasta che costano di più, piatti pronti nel cellophane e pane fresco in ceste di plastica.
Se esci a prendere il caffè, mi compri una brioche? O un pain au chocolat se ce l’hanno.
Respiro di continuo le parole, un affanno, parole che mi rendono padrona di un mondo che non esiste più. Voglio uscire da qui. Voglio stare qui per sempre. Sono sempre la stessa persona prigioniera di un corpo.
Buongiorno, come posso aiutarla? Cosa desiderava?
Come? Cosa desideravo? Desideravo