“La prima volta non fu quando ci spogliammo ma qualche giorno prima, mentre parlavi sotto un albero.
Sentivo zone lontane del mio Corpo che tornavano a casa.”
(Franco Arminio)
Tic. Tic. Tic. La pioggia cade piano e sottile sui vetri appannati delle case, al caldo da questo freddo inverno che gira nel vento. Strano, piove e non sento nulla seduta sui gradoni di pietra in giardino. Forse dovrei mettermi al riparo sotto quel tetto mentre lo aspetto, almeno non sporco il cappotto bianco. È lo stesso che avevo indosso più di un anno fa quando sono entrata in quel bar e bang, fulmini nell’eternità. Chi lo avrebbe mai detto che tutto avrebbe preso la forma della realtà, che ora lui fa parte della mia luminosità.
Due notti sono passate da quella prima notte insieme. Notte di stelle infinite e baci primi.
“Non riesco ancora ad aprire gli occhi”.
Quel primo messaggio, mandato pochi minuti dopo quel primo bacio, lo sento intenso anche nei ricordi e lungo la schiena mentre ci ripenso, così come allora mentre stava accadendo. E ho quella poetica sensazione sulla pelle che anche fra molti anni ci ripenserò ancora, a quel messaggio, quel bacio, quella notte e questa notte che sta per iniziare. L’inizio di una nuova vita. Una nuova nascita. Primavera precoce e profumata.
Il vialetto ghiaioso si illumina di fari che tagliano la nebbia di pioggia, un faro fino ai miei occhi. È arrivato. Ti ho tanto aspettato. Desiderare il vero, attenderlo, può renderlo più sincero, più vicino di qualsiasi immagine immaginaria.
Corro verso la macchina per non bagnarmi, non ho l’ombrello, e lui è da parte alla portiera. Me la apre e mi fa entrare.
Hey, ciao.
Ciao, ragazza magica.
Quel saluto mi sembra contenere un mondo. Un mondo che sento conoscere dal lontano ed è bello e ricco e pieno di luce e che eppure non mi sembra di aver mai vissuto. Come fa a conoscerlo anche lui?
Ci guardiamo per un attimo seduti dentro quella macchina buia e bagnata e vengo sfiorata da un lieve tremore, il timore di sapere che questo viaggio che stiamo per iniziare a fare ci porterà lontano e nessun lungo viaggio arriva senza brusche mareggiate. Dove ci porterà l’infinita onda sfinita?
Ho ricevuto le rose. Sono bellissime, grazie. Non dovevi.
Ti piacciono? Davvero? Non sapevo se ti piacessero le rose, ma ho pensato che bianco fosse il colore per te.
Perché?
Perché hai sulla pelle quel profumo che posso solo immaginare. Sogni leggeri e venti lontani.
Lo guardo con gli occhi nel vuoto mentre parla e sento per la prima volta nella mia vita un legame di appartenenza reale. Non dovuto, ma voluto. Cercato e trovato. Sei arrivato, ti ho tanto aspettato.
In quei primi minuti insieme di questa prima serata, un timido senso di imbarazzo ci avvolge, ma non per una mancanza di fiducia, o per la paura di dire cose sbagliate o fuori tempo, ma più perché ci conosciamo già così veramente che temiamo di svelare più di quello che già sappiamo. C’è una parte assopita di me che mi dice all’orecchio che questo ragazzo dagli occhi gentili lo conosce da sempre, forse anche da prima. Da terre remote e già vissute.
Guidiamo per un breve tempo sulla macchina che ha preso in prestito da suo fratello finché non parcheggiamo davanti a un piccolo locale fuori città.
Ho pensato di portarti fuori a cena. Ti va? Hai fame? Se non hai fame possiamo fare una ronda. Mettiamo qualche canzone e guidiamo fin dove vuoi tu.
Lo vedo muoversi e parlarmi come se volesse essere molto più grande della sua età. Lo vedo nei movimenti, lo ascolto nella parole, me ne accorgo anche dall’abbigliamento che ha scelto: un maglione di lana girocollo sopra una camicia elegante con il colletto ben stirato.
Ho fame e ho voglia di sedermi a cena con te. Sarà la nostra prima cena insieme e sono certa ce la ricorderemo.
Entriamo in questo piccolo ristorante dai piccoli tavoli e l’odore di pesce cucinato si mescola a fragranze di candele chiare, sguardi adulti, ombre odorose di tende di cotone pesante, pioggia dalla porta e menu marroni di carta.
Un cameriere sulla cinquantina ci fa sedere a un tavolino rotondo coperto da una tovaglia senza pieghe, là vicino alla finestra, prendendomi il cappotto e lasciandomi sola con quel vestito nero con le braccia scoperte che ho scelto apposta per questa serata e lasciando lui a guardare per secondi di silenzi.
Sei davvero bellissima. Non ti ho mai visto così elegante.
Beh, forse perché mi hai sempre visto con jeans e maglietta servire birre e panini fino alle 2 di notte al bar. Ma, se vorrai, scoprirai che dentro di me vivono tante immagini, infiniti colori.
Banchettiamo tra piatti sconosciuti e parole nuove e che ora assumono nuove forme. Ci scopriamo. Ci tocchiamo. Ci conosciamo per quello che siamo dentro racconti che abbiamo tenuto segreti da tutti per molto tempo.
Mi parla del suo lavoro, di come è arrivato a Milano e di come la vita di provincia sia per lui un porto dove approdare e uno da cui salpare verso terre selvagge che non vede l’ora di calpestare e lo vedo che dice la verità guardando quegli occhi di luce per la prima volta da così vicino. Quegli occhi che sembrano nascondere oceani di verità.
Di contro, io gli racconto dell’università, di come sono arrivata a scegliere Parigi come mia prossima casa e di come quel viaggio che inizierà fra molto poco sia per me il richiamo dell’unica vita possibile, io che la vita di provincia la vedo come un porto abbandonato. Siamo sempre stati alla ricerca di qualcosa e siamo sempre arrivati a questo mondo per scoprirne altri. Avventure di verità dentro gli occhi.
Fra pochi giorni, quindi, parti.
Sì, parto fra 18 giorni, lo sai. Ho provato a dirtelo in così tanti modi, a farti capire il mio desiderio, non di restare, ma di iniziare a camminare per mano con te molto tempo fa. Te lo dicevo per cercare di accelerare i tempi con te, tempi che invece restavano fermi. Perché ci hai messo così tanto? Perché sei arrivato proprio ora che me ne sto andando?
La sua voce sul ciglio della gola viene interrotta da un altro cameriere più giovane che ci allunga i dolci sul tavolo ora sporco di macchie di vino rosso. Prima a me e poi a lui. Grazie.
Guarda il cucchiaino affogare nel tiramisù troppo imbevuto nel caffè.
Perché avevo paura. Paura di vederti salpare per mari lontani. Paura di non vederti tornare. Di doverti sempre aspettare. Paura di non sapere come fare. Perché con te ho sentito che non eri una barca di passaggio in questo mio mare. Ma poi, ho capito che le barche non sono fatte per restare attraccate, le barche sono anime migranti se le sai portare al largo e quei tramonti in mezzo all’infinito non puoi vederli stando a riva. E io con te voglio provare a navigare nelle serate velate.
Intorno a noi le persone continuano l’andamento della loro vita, incuranti di quello che sta succedendo a quell’anonimo tavolo rotondo vicino alla finestra che altre cene ha ospitato e dove stasera sono seduti due piccoli ragazzi di 22 anni. L’inizio di un lungo viaggio.
Ci alziamo e mi offre la cena e usciamo dal ristorante con la notte blu intorno ai nostri pensieri bianchi. Davanti a noi, non il mare, ma il lago. Una distesa buia e misteriosa.
Vieni, ti porto in un posto.
Ha una voce meravigliosa ogni volta che mi invita a fare qualcosa. Profonda e vibrante. Come un abbandono a cui non so oppormi.
Camminiamo per qualche minuto e arriviamo a un parco poco distante. È un parco che conosco, ci sono già stata altre volte, ma sempre di giorno. È uno di quei parchi aperti, senza cancelli, che lo fa assomigliare a un giardino, di notte segreto. Calpestiamo il silenzio sul vialetto sabbioso che si è fatto fangoso per la pioggia che ora ha smesso di cadere. Luna calda e cieli calmi come poemi.
Mi metto sull’altalena mentre lui si accende una sigaretta e veniamo riportati in superficie dal suo telefono acceso che vibra.
Guarda il display ma non risponde. Io continuo a dondolare guardando il lago lontano.
È Wondy. Gliel’avevo detto che ero fuori a cena.
Gli hai detto con chi eri a cena? Magari pensava di poterti raggiungere.
Gli ho detto che ero a cena con la mia ragazza.
Allungo la punta delle scarpe ormai sporche sulla terra bagnata e fermo il mio moto ondoso e lo guardo negli occhi. Nessuno mi aveva mai chiamato la sua ragazza.
Perché lo sei, vero, la mia ragazza?
Lo chiede pentendosi di averlo fatto, temendo di averlo solo pensato. Mentre dentro di me quell’emozione scatena un’onda prima di suscitare le parole giuste per poterla esprimere.
Sì, sono la tua ragazza.
Sorrido e riprendo il mio andare lento avanti e indietro, ricreando il piacere di quella notte nel riparo di quelle parole come albe sulla pelle.
Sai, c’è una cosa che credo tu debba sapere, visto che sono la tua ragazza.
Esito per qualche istante, con le labbra che si sono fatte fredde e secche per il vento delle prime ore di gennaio.
Io non sono