“Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.”
(Antonia Pozzi, Confidare)
Mi piacciono i treni. Mi piace il loro andamento lento, monotono, continuo. Mi piacciono anche quando li odi per il loro correre mano nella mano con il ritardo, perché riescono sempre a scandire il senso del tuo tempo. La percezione che hai di esso. Tu sei lì, composta su un vagone che sa di nausea fitta e lo vedi chiaramente, il tempo. Lo osservi da fuori il finestrino che scorre, immagine dopo immagine. Se ti concentri bene, se non sei troppo infastidita per quel ritardo, riesci a vedere anche te stessa. Ti vedi fisicamente dentro quel vagone che ti sposti da un luogo ad altro. Da un tempo presente a uno futuro che inizi a immaginare, o uno passato che vuoi ricordare.
Questa cosa non succede su un aereo. Dentro quella scatola volante, la tua mente è già profondamente ancorata all’arrivo. Fiondata oltre al viaggio. E lo stesso vale per la macchina, perché quando guidi, pensi veramente solo alla guida. Quando non guidi, pensi alla radio, alla conversazione, alle parole. Ma non al tempo.
Sì, sono estremamente convinta che solo sul treno si riesca a toccare con le dita il tempo. Lo immagini, lo disegni, lo afferri. Ed è lì, su quel sedile, mentre qualche nota dalla cuffia prova a starti dietro correndo lungo le rotaie, si viene a creare tutto quel contorno che è l’attesa: l’attesa di quello che stai raggiungendo, l’attesa per quello che stai sognando, l’attesa per quello che non hai ancora immaginato. Vedi tutto dentro quello scorrere dei finestrini che passano uno dietro l’altro.
Ci penso insistentemente dentro la carrozza di seconda classe della Rer* dai sedili blu e rossi e le pareti giallo chiaro. Tutututu-tututu. Sento il rumore dei binari che schiacciano le rotaie facendomi fare dei piccoli salti e in mezzo, tra un incastro e un altro, penso. Senza sosta. Tutututu-tututu.
Sono quasi 40 giorni che non ci vediamo. Non siamo mai stati così tanto senza vederci, senza toccarci, senza baciarci. Chissà se il sapore succoso delle sue labbra è sempre lo stesso, se la stretta del suo abbraccio si è fatta più leggera.
Sono le 7 di sera, quasi. Il suo aereo atterra fra circa un’ora. Venerdì sera, weekend di fine inverno. Magari se facciamo in tempo andiamo a mangiarci un hamburger da Procope. Speriamo non sia in ritardo.
Sono stanca, anche se oggi non ho fatto molto, una lezione di diritto amministrativo all’Amphithéâtre 1 e qualche ora in biblioteca Sainte-Geneviève per la consegna di quel progetto, poi merenda in quel posto vicino a casa e sulla Senna con una fetta di tarte aux pommes fresca di oggi, si sentiva. Seduta sul sedile doppio in compagnia di questa altalena di sentimenti che oscillano dall’eccitazione all’ansia e il timore, pensando a quanto manca all’arrivo, a quanto mi è mancato, a quanto tempo ci vuole prima di mangiare quell’hamburger, vengo attraversata da una chiara certezza che, ovunque questo treno mi porterà, lui ci sarà, lo sento costantemente dentro di me, nei miei movimenti, in quelli della mia mente e, finché questa certezza continuerà a scorrere dentro di me, finché lui sarà lì a fianco a me, per me il mondo non potrà che essere bello.
“Excusez moi, mademoiselle, est-ce que ce siège est libre?"
“Oui, oui. Asseyez-vous”.
E mi sposto un po’ più contro il finestrino.
Solo i rumori di sottofondo rompono periodicamente il suono delle onde dei miei pensieri.
Rispondo senza neanche entrare nel quadro, ma continuando a restare connessa a questo viaggio di attesa verso un mondo che conosco già perfettamente: occhi di luce, mani intrecciate, parole sul cuore.
Cosa si aspetta? Nella vita intendo. Un treno sulla banchina, un messaggio nella notte, le nuvole che passano, la luna che sale, quella canzone alla radio, una voce di casa, l’esito di un esame, aspetti di arrivare alla fine di quel libro, che la luce delle candele si esaurisca. Forse, se ci pensi, alla fine si aspetta sempre solo di tornare. E nell’attesa ti accorgi che tutto passa. Tutto sempre si muoverà. Qualsiasi cosa si sposterà, come le dune del deserto che vengono mosse dal vento pur restando ferme. E tu aspetti, continui ad aspettare, pensando che tutto cambierà, ma se ci credi e ci pensi, quelle dune resteranno sempre ferme lì ad aspettare loro te.
Inganno l’attesa delle ultime fermate analizzando nel dettaglio il mio aspetto, se così vado bene o ho dimenticato qualcosa. Ho scelto attentamente i vestiti in piedi davanti alle ante del mio armadio di casa, ho davvero voglia di piacergli e di farmi piacere, di dare piacere all’idea che ha di me. Ho un vestito in maglia rosso che arriva poco sotto le cosce, un paio di stivali di vernice nera che arrivano appena sopra il ginocchio, delle calze autoreggenti nere e sono senza biancheria. Forse non la scelta igienicamente più rassicurante per stare seduta su un treno regionale per 45 minuti. Ma è stata una scelta d’attesa. Fa niente, ci penserò lunedì mattina, quando