“In this life, they were never able to have the time together they both so longed for, and deserved. But, what sense of hope or satisfaction could a reader derive from an ending like that? So in the book I wanted to give them what they lost out on in life. I’d like to think this isn’t weakness or evasion. But a final act of kindness I gave them: their happiness*”.
(Atonement, Il film)
È in ritardo. Come sempre. Da sempre.
C’è stato un momento, in un altro luogo, in un altro tempo lontano 27 anni, in cui ci avevo provato a spiegargli i principi base della buona puntualità, della normale educazione. Quelle piccole cose fastidiose che proprio non riesci a trattenere e devi far schioccare da sotto la lingua, tipo puoi non parlare a voce così alta, puoi non mettere il braccio fuori dal finestrino, puoi non far aspettare una ragazza che ci ha messo ore a prepararsi. Gliele sussurravo, tutte quelle cose, neanche troppo velatamente quando, puntualmente, arrivava sotto casa con venti o più minuti oltre l’orologio stabilito. Allora, ricordo che scendevo tronfia trionfante con un pacchetto preconfezionato di quelle preziose imprecazioni femminili, tipo ti odio, ti lascio la prossima volta, e lì lo trovavo, sereno e serafico, fuori dalla macchina appoggiato al cruscotto a fumare una sigaretta accogliendomi con il più bello dei suoi “ciao, scusa il ritardo. Stai benissimo”e sfumando ogni possibilità di scontro.
Apro gli occhi sopra il cielo di questi ricordi e mi godo l’attesa con la consapevolezza istintiva della varietà della vita. In fondo, lì seduta accanto a me ho già una piacevole compagnia: il cestino di vimini preso in quella bancarella a Roussillon qualche estate fa, una bottiglia di rosé fresca e qualche assaggio comprato sulla strada che rivela il mio appetito con dell’uva spiluccata come strappata dal trespolo, un cielo rosa che si sta tuffando nell’arancio, i piedi nudi. E questo vestito ritrovato da poco e riesumato da molte lune fa che mi sta ancora bene e mi fa stare sempre bene.
Seduta in questo posto che molte notti ha ospitato, l’estate intorno profuma di bello, un bello possibile. Nell’aria fluttuano piene risate e piccoli fiori verdi e bianchi. La respiro questa atmosfera di luce e la faccio entrare nel petto, rinchiusa al sicuro per quando tornerà l’autunno dentro, e mi sento pienamente attaccata a questa mia vita. Non ricordo di esserlo mai stata altrettanto, così tanto. Un tempo, ritenevo importante essere apprezzata da molti. Ora, sento importante essere semplicemente amata per poter essere davvero appagata. E lo sono, appagata.
Mentre sono lì, a occhi chiusi e cuore pieno, arriva alla fine il suo bacio sopra la testa.
Ciao, scusa, sono il ritardo. Stai benissimo.
Incredibile. Ci riesce ancora oggi, penso infilandomi in tasca tutte quelle cose fastidiose da dirgli che avevo impacchettato da molti minuti.
Ciao, étranger. Spero che ci sia una buona ragione per cui io abbia dovuto aspettare così tanto per aprire questa bottiglia di rosé.
Sorride e non mi dice niente. Almeno non per il tempo di accovacciarsi per terra di fianco a me con i piedi a penzoloni nella Senna.
Si tiene addosso le Stan Smith bianche e si accende una sigaretta.
Stavo cercando la giusta ispirazione e ho perso la cognizione del tempo.
Parla ed espira il fumo e cerca di recuperare i minuti prendendo la bottiglia e iniziando a versare il rosé nei bicchieri di vetro che ho messo nel cestino di vimini.
Ti rendi conto che siamo le uniche persone con i bicchieri di vetro qui intorno?
E tu ti rendi conto che le persone qui intorno potrebbero essere tuoi figli o anche tuoi nipoti? E comunque anche a 21 anni portavo i bicchieri di vetro quando venivamo qui, o siamo di fronte ai primi accenni di demenza senile?
Oh Pan Pan, sei la solita pazzerella. Non cambierai mai.
Se vuoi cambio e mi trasformo nella stereotipata cinquantenne che ti porta nel Médoc nel weekend con il gruppo di amici intellettuali a disquisire di Proust e politica estera mediorientale e ti fa mettere le ciabatte di cashmere quando entri in casa.
Mi sei mancata oggi. Se ti avessi avuta in studio forse ci avrei messo meno a trovare l’ispirazione.
Bugiardo e adulatore, ogni volta che irrompo in studio non vedi l’ora che me ne vada.
Solo perché mi distrai.
Solo perché sai che ti tartasso di parole e ti trascino via puntuale e sfinito fuori dalla porta.
Da quando ha preso quello studio nel Marais, durante il giorno ci vediamo meno, ma quando torna a casa gli occhi gli brillano più forte mentre mi parla davanti a qualche nuovo piatto che ho provato a cucinare. È uno spazio ampio e molto caotico, lo studio, ma molto giusto per lui, pieno di tele bianche e tele schizzate, libri aperti sul grande tavolo di legno e libri impilati per terra sul parquet. A volte la sera non torna a casa. Arriva l’ispirazione e resta lì fino alla fine, finché non si esaurisce. Ogni tanto gli mando un messaggio per chiedergli di non farmi andare dormire da sola, non mi piace, non mi è mai piaciuto, lo sa, ma poi mi addormento nel letto con Ryūichi Sakamoto, il nostro fox terrier, e basta. In fondo, anche quando eravamo due ragazzi con solo i sogni sopra la testa capitava spesso che lo chiamassi dalla camera da letto e lui andava avanti fino alle 3 del mattino davanti al suo MacBook Pro con la musica nelle cuffie mentre io mi addormentavo nel letto con Dorothy Gale, la nostra prima cucciola dal pelo tutto nero e le scarpette bianche. Allora, di solito, la mattina litigavamo perché io tenevo il broncio. Ora è diverso. Mi sveglio poco prima di lui e accendo il caffè, poi torno nel letto a svegliarlo e restiamo per un attimo lì, in silenzio, senza chiedergli cosa ne sia stato della notte prima. Mentre facciamo colazione e lui ascolta e io parlo calma ma concitata già di prima mattina, come sempre da quasi trent’anni, condividiamo idee sempre nuove e punti di vista inediti. Poi lui esce a fumare sul grande terrazzo di casa la sua prima sigaretta della giornata mentre io cerco i vestiti che accompagnino la mia agenda troppo fitta di appuntamenti. Crescendo, semplicemente, gli equilibri si riassettano.
Allora, quella galleria del V°arrondissement ti ha dato conferma per la tua esposizione in autunno?
Glielo chiedo dopo aver finalmente preso il primo sorso di vino freddo dal bicchiere e lui sta guardando il fumo che esce dalla sigaretta.
Sto aspettando, ma penso proprio che si farà.
Sono così fiera di te, Jacques. Ti ricordi quando non avevamo mezza moneta ma eravamo pieni di vita e camminavamo per giorni senza meta per le vie piccole e sporche di questa città e ti dicevo che un giorno anche tu avresti avuto il tuo spazio in una di queste gallerie.
Me lo ricordo, Pan Pan, ma allora avevo ancora i capelli castani.
Mi stai dicendo che ora, ora che li hai finalmente bianchi, dopo che per decenni hai desiderato di averli così mentre io sfinita ogni mese andavo a fare la tinta, adesso non ti vanno bene?
Dico che il tempo passa.
Trasferirsi a Parigi è stata la realizzazione non tanto di un sogno, quanto di un qualcosa che sentivamo da dentro. Sin dal primo anno insieme, in quell’ormai sbiadito 2008 che riesco ancora a toccare con gli occhi, mi scriveva via msn che voleva vivessimo lì, in quella città che così tanto ci aveva dato. Sai qual è il mio sogno? Parigi, vivere lì con te. E ogni volta che ci tornavamo, per un weekend, una fuga non programmata, un momento fuori dal nostro mondo, ci fermavamo di fronte alle vetrine delle agenzie immobiliari di quartiere a guardare un pezzo di futuro. Tu puoi seguire le tue clienti e io mi arrangio in qualche modo, magari con i soldi tenuti via mi trovo uno spazio tutto mio dove dipingere mentre cerco qualche galleria che mi promuova. Cercava di convincermi così.
Mentre guardo lo scorrere della Senna sotto i piedi nudi a strapiombo sui nostri ricordi e la luce del sole del tramonto che sfiora le piccole onde mosse dai bateaux-mouches che continuano a passare rumorosi di festa, realizzo che sono davvero passati quasi trent’anni da quelle chat in msn. In una percezione di tempo che neanche il vento può sfiorare.
Ti ricordi la prima volta che siamo venuti qui, in questo posto?
Lo sai che me lo ricordo.
Sì, lo so. Ma voglio ricordartelo lo stesso, adesso. Di quando abbiamo fatto quella foto, tu vestito tutto a righe scoordinate che provi a baciarmi la fronte. C’era la stessa luce di stasera.
La luce era più gialla quella sera. Ora è quasi vermiglio.
Quando fai il nerd dei colori sei più insopportabile di me quando faccio la maestra delle posate.
È una delle poche cose su cui non puoi ribattere.
Inspiro per dire qualcosa, ma interrompo il petto a metà, a bloccare le parole. Ha ragione. E ogni tanto è bello così.
Sai, oggi, dopo aver finito un appuntamento con una cliente, sono tornata a casa per scrivere. Mi sentivo trasportata verso parole prima irraggiungibili. Sento che sono a un buon punto del libro. Sarà questa giornata che ti mette voglia di stare attaccata a questo mondo. Stavo scarabocchiando delle parole, appunti da mettere insieme e pensieri da ordinare in fila indiana in qualche frase connessa al cuore. Scrivevo e pensavo, ti pensavo, ci pensavo, realizzavo quanto siamo fortunati.
Sai che non mi piace quando dici che siamo fortunati, Pan Pan. Tutto quello che abbiamo, lo abbiamo scelto noi, l’abbiamo voluto, l’abbiamo fatto crescere. Sono onde del destino che su cui abbiamo navigato. Le cose possono anche capitarti tra le mani, ma poi devi averne cura. Devi remare nella direzione giusta del momento, seguendo la spinta del vento.
Lo guardo seduto con la sua giacca verde di cotone sotto quel salice piangente mentre dalle voci intorno a noi si alzano sprazzi di risate e penso che nella vita tutto sia incredibilmente e davvero bello.
Dicevo, ero un vortice di pensieri e parole. E cercavo un modo per descriverci, dipingere con aggettivi e sostantivi, quello che siamo. Ho persino cercato sul vocabolario social. Non ho trovato nessuna parola che dica di noi, quello che siamo, quello che abbiamo avuto in questo tempo insieme.
Amore? Non ti sembra una buona parola?
Lo guardo con gli occhi fissi che si pitturano di sarcasmo.
Si vede che dipingi per vivere. Anche il figlio di Carlo, tuo nipote, può usare quella parola quando ci vede o quando vede una qualsiasi coppia insieme da così tanto tempo.
Il figlio di Carlo ha 2 mesi.
Dettagli.
Rimaniamo sospesi nel momento. Le persone intorno a noi iniziano ad alzarsi e allontanarsi nel crepuscolo stellare. Verso una notte di esperienze da toccare. Esperienze o costellazioni di eventi che probabilmente noi, in tutti questi anni, abbiamo già afferrato.
Ti va se rimaniamo qui, nel nostro posto, ancora un po’? Mi dà ancora quella strana sensazione speciale venire qui, con te o anche da sola, senza aspettative, senza direttive. Stare seduti a guardare il fiume e ascoltare il flusso scorrere.
Mi va. Piace anche a me qui.
Quando non ci sarai più mi tatuerò le coordinate di questo posto.
No, scusi madame, cosa vuol dire Quando non ci sarò più?
Massì, dai, hai capito. Fra moltissimi anni. Troppi. Avrò tipo 103 anni e mi farò il mio primo tatuaggio.
Io, allora, me lo tatuo prima, così quando poi mi raggiungerai, dopo altrettanti tantissimi anni ci ritroveremo a furia di camminare verso le stesse coordinate.
Le nostre risate risuonano come accordi azzeccati nell’aria, mentre la luna disegnata a metà nel cielo viola si tuffa riflessa nelle onde della Senna e delle nostre parole, facendo intravedere quei nostri sorrisi ancora giovani.
Ci guardiamo ridendo per un attimo, fermando il tempo. E in quel tempo e in quello sguardo sono sepolti anni di straordinaria leggerezza, di normale bellezza. Non posso fare altro che baciarlo, per interrompere quel tempo. Uno di quei baci pieni e morbidi che mi fa sentire uno sciame di luce brillare dentro lo stomaco, ancora oggi a 50 anni, così come ieri che ne avevo 22 ed ero esattamente qui seduta per terra da parte a questo ragazzo capitato dal nulla e destinato a non dissolversi nel nulla.
Oggi ho sentito Wondy. Dice che arriverà a trovarci per il 14 luglio.
Ma ti avevo detto che arriva anche Mimi con il suo ragazzo. E forse anche mia sorella, sai che decide sempre all’ultimo.
Vorrà dire che faremo una grande festa in terrazza da noi mentre aspettiamo i fuochi d’artificio. Oppure un picnic sotto la torre come quando eravamo ragazzi.
Facciamo che noi, vecchi e noiosi e boriosi, quella sera facciamo una cena in terrazzo che la città sarà blindata, e i giovani, i picnic e la Tour Eiffel li raggiungiamo nel 2000 e mai.
Sei proprio diventata una borghese. Guarda che lo dico ai membri del tuo book club e alle tue clienti che un 14 luglio di non troppe lune fa hai bevuto così tanto che hai fatto la pipì tra i cespugli degli Champ de Mars.
Sei perfido. E non ti crederebbe nessuno.
Si accende la terza sigaretta della serata e fissa il Palais du Louvre di fronte a noi.
Sai, mentre venivo qui a piedi stasera, ho realizzato che alla fine, dopo tutti questi anni, siamo arrivati ad avere tutto quello che volevamo. La casa in Saint-Germain, il mio studio, la tua società di consulenza e il tuo prossimo libro, Ryūichi Sakamoto, qualche quadro che siamo riusciti a comprarci. Sì forse manca il casale in Provenza, ma ora dei tuoi 103 anni ce la facciamo. Però, ho proprio sentito una cosa imminente da fare adesso.
Lo ascolto mentre finisco l’ultimo bicchiere di rosé, rimproverandomi per non aver messo nella cesta una seconda bottiglia.
Dovremmo aprirla quella libreria. Bob ha detto che ha via qualcosa da investire e ci finanzia, almeno per iniziare.
Appoggio il bicchiere sui ciottoli di pietra su cui siamo seduti.
Questa potrebbe essere la cosa più incredibilmente puntuale che tu abbia mai detto in 27 anni insieme. E sai cosa ti dico, Jacques? Che ho già il nome, per la nostra libreria, perché sapevo che prima o poi l’avremmo fatto, io e te. Quindi, dimmi dove firmare.
Ti amo tanto, Pan Pan. Mi sembra che la vita con te sia un viaggio in barca a vela con il vento sempre fresco nella testa. E non vedo l’ora di tutti i prossimi 27 anni, fino a quando non ci troveremo oltre la vita ancora in questo posto, solo nostro, coordinate tatuate sul corpo, a guardare il cielo che cambia colore.
àncora.
Cosa dici, Pan Pan?
àncora. È la nostra parola. Perché salpiamo guidati dal vento di questa vita. Ma siamo l’àncora che penetra nei nostri destini. E getteremo l’àncora quando, fra moltissimi, troppi, anni, ci aspetteremo per la prossima vita.
Photo: La prima volta che siamo stati nel nostro posto, nel luglio 2008, e abbiamo fatto quella foto con lui vestito tutto a righe scoordinate che prova a baciarmi la fronte.
*“In questa vita non sono mai stati in grado di passare insieme quel tempo che entrambi tanto desideravano e meritavano. Ma, che senso di speranza o soddisfazione potrebbe derivare un lettore da un finale del genere? Così, nel libro, ho voluto dare loro ciò che non hanno avuto nella vita. Mi piace pensare che questa non sia debolezza o evasione. Ma un ultimo atto di gentilezza che gli ho dato: la loro felicità”
Ci vediamo martedì prossimo con il capitolo #13
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“Le nostre risate risuonano come accordi azzeccati nell’aria, mentre la luna disegnata a metà nel cielo viola si tuffa riflessa nelle onde della Senna e delle nostre parole, facendo intravedere quei nostri sorrisi ancora giovani. Ci guardiamo ridendo per un attimo, fermando il tempo.”